Bruno ricorda che dormiva abbandonato sulla spalla di Stefano che lo amava come si ama soltanto a diciotto anni e non aveva mai avuto il coraggio di dirglielo. Stefano scriveva poesie senza titolo scritte in fretta, su foglietti che venivano ritrovati sparsi qua e là per la casa, su un tavolino, a terra, o appallottolati dentro un posacenere. Un numero romano indicava la progressione della storia. Quando la notte ritornava e i giochi ricominciavano Bruno non vedeva l’ora di addormentarsi sulla spalla di Stefano, ma lo aveva capito troppo tardi, quando la vita li aveva già separati. Conserva ancora tutte le poesie.
Un paio d’anni dopo aveva incontrato Lucien durante un viaggio in Belgio. Al primo sguardo che si erano scambiati Bruno aveva capito. Aveva capito le poesie di Stefano e il loro dormire insieme. Il suo passato ritornava come un sogno per fargli comprendere il presente. E anche Lucien sembrava un sogno. Era così bello da non poterlo descrivere. Ed era finalmente un ti amo che rispondeva ti amo anch’io. Una gioia nuova, sconosciuta. Come sconosciuta era la meravigliosa chiesa di Mons che Lucien gli descriveva con passione, raccontandogli la storia della costruzione, dell’architetto che l’aveva progettata, infervorandosi nella rievocazione di fatti storici e leggende. Bruno invece guardava la sua bocca pensando di leccargli i denti e le gengive…
La critica alla prima edizione cartacea del romanzo di
Lamette.it
“Bruno cerca la sua via di scampo dal dolore, il dolore per la perdita dell’amore o per una partenza o per un lutto. Particolarmente toccante è la descrizione di Bruno che riconosce il cadavere di Roberto in obitorio e il suo non poter neanche confessare che era la sua persona del cuore. È terribile dover mentire anche davanti alla morte della persona che ami […] ci sono ingiustizie che sono visibili soltanto agli occhi di chi le subisce”.
In questo sunto (…) sulla quarta di copertina del romanzo
Vie di scampo è ben centrato il messaggio ultimo di questo libro ben scritto, la moralis fabulae che il lettore porterà tatuata sulla pelle e, si spera, nell’anima, una volta riposto il volume nella propria libreria (…). Perché bisogna convenire che non c’è nulla di peggio di non poter essere sé stessi e Dio sa quanto è diventato difficile riuscirvi in un Paese come l’Italia dove imperano l’ipocrisia ed il perbenismo, figli naturali di quella borghesia che il grande Pasolini correttamente definì “la più ignorante d’Europa”. E non è un caso che il tema del viaggio sia lo stratagemma che permette a Trinelli di far danzare liberamente i propri personaggi sul palcoscenico della sua poetica.
Va innanzi tutto premesso, secondo il mio modesto parere, che spiccata qualità della fatica trinelliana – una piacevole fatica, s’intende – è una scorrevolezza di scrittura che evoca a tratti talune atmosfere tondelliane, differenziandosene tuttavia per una levità davvero calviniana che spesso restituisce la sensazione tattile di un libro che tende a dissolversi tra le dita, per segmentarsi e subito ricomporsi in immagini visive ricche di colore naturale e calore umano, grazie a momenti di notevole garbo espressivo.Francamente affermare che il tema oggetto di trattazione sia la diversità in generale – e l’omosessualità in particolare -, sarebbe offensivo per l’intelligenza dell’autore, poiché il vero protagonista dell’opera è l’amore, questo sentimento che sta sempre al confine con l’odio, che mesce beffardo piacere e sofferenza, che ama trasformare sé stesso alternando passione e ragione, sensualità e legame affettivo che può anche soffocare una persona fino a farla fuggire lontano, rinnegando perfino la propria identità. Non per nulla l’autore spiega nella sua breve postfazione che voleva che “la storia del protagonista fosse un po’ la storia di tutti, non per un processo di identificazione che avrebbe potuto accattivare le simpatie di un pubblico più vasto, ma perché desideravo porre un freno al delirio di sofferenza di cui, in quanto esseri umani, siamo spesso vittime, chiarendo che la sofferenza di una persona è anche la sofferenza di un’altra, e che mentre noi stiamo soffrendo, qualcun altro forse soffre nello stesso modo o forse di più. Nessuno ha l’esclusiva di nulla”. Nemmeno dell’amore, aggiungo io, che infatti spesso finisce tra incomprensioni e sciocche gelosie e rimpallamenti di responsabilità e perfino sottili pettegolezzi che fanno male al cuore.
http://www.lamette.it/modules.php?name=Live_News&func=LiveNewsStampa&nid=745
admin –
La critica alla prima edizione cartacea del romanzo di Lamette.it
“Bruno cerca la sua via di scampo dal dolore, il dolore per la perdita dell’amore o per una partenza o per un lutto. Particolarmente toccante è la descrizione di Bruno che riconosce il cadavere di Roberto in obitorio e il suo non poter neanche confessare che era la sua persona del cuore. È terribile dover mentire anche davanti alla morte della persona che ami […] ci sono ingiustizie che sono visibili soltanto agli occhi di chi le subisce”.
In questo sunto (…) sulla quarta di copertina del romanzo Vie di scampo è ben centrato il messaggio ultimo di questo libro ben scritto, la moralis fabulae che il lettore porterà tatuata sulla pelle e, si spera, nell’anima, una volta riposto il volume nella propria libreria (…). Perché bisogna convenire che non c’è nulla di peggio di non poter essere sé stessi e Dio sa quanto è diventato difficile riuscirvi in un Paese come l’Italia dove imperano l’ipocrisia ed il perbenismo, figli naturali di quella borghesia che il grande Pasolini correttamente definì “la più ignorante d’Europa”. E non è un caso che il tema del viaggio sia lo stratagemma che permette a Trinelli di far danzare liberamente i propri personaggi sul palcoscenico della sua poetica.
Va innanzi tutto premesso, secondo il mio modesto parere, che spiccata qualità della fatica trinelliana – una piacevole fatica, s’intende – è una scorrevolezza di scrittura che evoca a tratti talune atmosfere tondelliane, differenziandosene tuttavia per una levità davvero calviniana che spesso restituisce la sensazione tattile di un libro che tende a dissolversi tra le dita, per segmentarsi e subito ricomporsi in immagini visive ricche di colore naturale e calore umano, grazie a momenti di notevole garbo espressivo.Francamente affermare che il tema oggetto di trattazione sia la diversità in generale – e l’omosessualità in particolare -, sarebbe offensivo per l’intelligenza dell’autore, poiché il vero protagonista dell’opera è l’amore, questo sentimento che sta sempre al confine con l’odio, che mesce beffardo piacere e sofferenza, che ama trasformare sé stesso alternando passione e ragione, sensualità e legame affettivo che può anche soffocare una persona fino a farla fuggire lontano, rinnegando perfino la propria identità. Non per nulla l’autore spiega nella sua breve postfazione che voleva che “la storia del protagonista fosse un po’ la storia di tutti, non per un processo di identificazione che avrebbe potuto accattivare le simpatie di un pubblico più vasto, ma perché desideravo porre un freno al delirio di sofferenza di cui, in quanto esseri umani, siamo spesso vittime, chiarendo che la sofferenza di una persona è anche la sofferenza di un’altra, e che mentre noi stiamo soffrendo, qualcun altro forse soffre nello stesso modo o forse di più. Nessuno ha l’esclusiva di nulla”. Nemmeno dell’amore, aggiungo io, che infatti spesso finisce tra incomprensioni e sciocche gelosie e rimpallamenti di responsabilità e perfino sottili pettegolezzi che fanno male al cuore.
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